"I primi contatti con la Macchina di Santa Rosa li ebbi al termine della guerra. Fui facchino e ciuffo, per dieci anni, esattamente nella terza fila, al numero 23.
Trovandomi a ciuffo, durante il trasporto, avevo la sensazione di essere schiavo della fede in Dio, incatenato al mio posto da legami invisibili, dotato di una forza eccezionale per muovere quella mastodontica mole, fatta d’amore e tradizione.
Giunse poi l’ora di abbandonare quel posto, ma seguii sempre col cuore e da vicino i miei ex-compagni e le vicende del campanile che cammina”…
“...mi ero dedicato all’arte, soprattutto alla scultura e alla fusione del bronzo alla quale mi ero appassionato, prendendo anche qualche spunto dalla lettura dell’avventurosa vita di Cellini e della tormentosa creazione del Perseo”…
“Pensavo alla Macchina come ad un sogno lontano fino al 1967 quando uscì il nuovo bando: vi erano solo 44 giorni per porgettarla ed appena tre mesi per costruirla. Si prevedeva un buon numero di concorrenti, ma non era questo che mi intimoriva.
C’era qualcosa che non andava nel bando, soprattutto il misero stanziamento rateale per cinque anni che, a mio avviso, rischiava di far morire la manifestazione.
Decisi di non partecipare anche perché avevo già provato troppi dispiaceri e tante delusioni.
Non avevo fatto però i conti con la mia famiglia, in seno alla quale, dopo il mio rifiuto, si era creato un clima piuttosto teso e mio figlio, in special modo, continuava a insistere.
Forse fu proprio questa cieca fiducia nelle mie possibilità a darmi la spinta decisiva, e così mi convinsi”.