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Il magnifico rettore Mancini con il ministro Mussi
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Pubblichiamo integralmente l'intervento del magnifico rettore Marco Mancini pronunciato questa mattina per l'inaugurazione dell'anno accademico alla presenza del ministro Mussi
- Signor ministro, magnifici rettori, autorità civili, politiche, militari e religiose, colleghi, studenti, signore e signori,
porgo a tutti voi il benvenuto dell’Università degli Studi della Tuscia all’Inaugurazione dell’anno accademico 2006/2007, XXVII della nostra Università.
Desidero in primo luogo rivolgere il saluto dell’ateneo e il mio personale ringraziamento al Ministro Fabio Mussi, il quale, accettando il nostro invito, ha inteso onorare questa solenne cerimonia con la sua presenza.
Un cordiale saluto poi a tutti i gentili ospiti; in particolare, un sentito ringraziamento per la loro partecipazione ai colleghi rettori delle Università di Campobasso, Cassino, Napoli l’Orientale, Napoli “Suor Orsola Benincasa”, Perugia Stranieri, Roma “La Sapienza”, Roma Tor Vergata, Roma Tre, L.U.M.S.S.A., I.U.S.M., Libera Università S. Pio V, Salerno, al Pro-Rettore di Siena, ai delegati rettorali di Catania e dell’Università Europea di Roma. Infine un saluto particolarmente affettuoso al presidente della Conferenza dei rettori, Guido Trombetti, rettore dell’Università di Napoli “Federico II”.
L’Università è fiera oggi di ospitare tutti voi nei locali restaurati del Complesso monumentale di S. Maria in Gradi, il cui ultimo lotto è stato inaugurato ufficialmente questa mattina dal Ministro Mussi. E’ l’ultima tappa di un lungo percorso iniziato sotto gli auspici del fondatore di questa Università, il rettore Gian Tommaso Scarascia Mugnozza (presente in sala, cui rivolgo un cordiale saluto), proseguito grazie al sostegno di tanti amici del nostro ateneo fra i quali, visto che è presente qui fra noi, vorrei ricordare Ugo Sposetti; infine il sindaco Gabbianelli che ha seguito da vicino le procedure tecnico-amministrative per i lavori di recupero.
L’accenno alla sede in cui ci troviamo non deve sembrarvi di semplice circostanza. Ritengo infatti che aprire l’anno accademico a S. Maria in Gradi costituisca per molti versi un evento emblematico e denso di significato.
Questi edifici - che l’università ha da poco restituito pienamente alla città di Viterbo - non rappresentano solamente una traccia dell’identità storica, per così dire, dello Studium Tusciae e della tradizione culturale che caratterizza da secoli questa antica città medioevale. S. Maria in Gradi è qualcosa di più. E’ il simbolo della crescita, dello sviluppo e dei successi conseguiti nel corso di questi anni dal nostro ateneo.
E’ una rivendicazione che faccio con la giusta misura ma anche con il legittimo orgoglio di chi ha visto la nostra università svilupparsi in modo impetuoso, conseguire obiettivi di eccellenza, raggiungere mète impensabili fino a poco tempo fa.
Questa crescita è avvenuta e sta avvenendo in pieno accordo con le aspettative del territorio, con il sostegno voglio aggiungere concreto e fattivo del territorio, grazie all’impegno e alla tenacia del personale docente, tecnico-amministrativo a qualunque titolo, in qualunque ruolo e con la partecipazione convinta del mondo studentesco.
Crescita dell’offerta formativa, della ricerca, della capacità di attrarre finanziamenti, crescita del numero di studenti.
Crescita non ostante le mille difficoltà che incontra ogni ateneo pubblico per poter sopravvivere, figuriamoci per potersi sviluppare (…dein philosophari…), crescita all’interno di un contesto irto di ostacoli finanziari, normativi e da un po’ di tempo a questa parte - anche sociali.
Già, sociali, visto che, nonostante i tanti appelli all’economia della conoscenza, ai valori della ricerca europea e della competizione globale (l’ultimo, molto bello, lo abbiamo ascoltato dal presidente Barroso neolaureato h.c. alla Sapienza), le università e gli universitari sembrano essere divenuti l’obiettivo preferito degli strali di tanti editorialisti, di tanti Soloni illustri e dei tanti economisti di turno, salvo poi tacere sui malanni che affliggono da tempo altri settori pubblici e privati.
Ci conforta Seneca per fortuna, ministro Mussi, quando scrive “cum dubiae sint vires inexpertae, at merito certissima firmitas habeatur quae omnis incursus respuit” (de const. sap. 3, 4).
La nostra Università ha adempiuto e continua ad adempiere al difficile compito di formare i giovani al sapere critico e alla ricerca, di aprire “all’innocente gioventù che va all’università piena di fanciullesca fiducia” come scriveva Schopenhauer nei Parerga, le speranze di una vita dignitosa nella società civile di domani. Un compito politico oltre che morale come ha giustamente ricordato il presidente Trombetti a chiusura della sua relazione sullo stato delle Università un compito che spetta al sistema pubblico di formazione e che merita il riconoscimento e il sostegno di chi per primo deve farsi garante della formazione pubblica, ossia dello Stato.
E dallo Stato e dal governo noi ci attendiamo risposte chiare alle tante istanze che, non ostante i primi segnali di attenzione contenuti nella recente legge finanziaria, restano ancora prive di soluzione.
L’Università, come è stato dichiarato in più di un’occasione pubblica dalla Crui, è pronta a fare la propria parte, ad affrontare i necessari sacrifici e ad assumersi le proprie responsabilità.
Gli atenei però non possono e non debbono consentire di essere collocati al di sotto della soglia di sopravvivenza, disconoscendo così nei fatti quel ruolo che è loro riconosciuto nelle enunciazioni di principio. Ci tornerò in chiusura del mio intervento.
Il senso di responsabilità e il ruolo delle università italiane a livello di sistema complessivo è dimostrato da cifre inequivocabili, primi fra tutti gli indici di produttività riportati dal settimo rapporto del Cnvsu relativo all’anno 2006.
Si è incrementato il numero degli immatricolati al sistema universitario; è aumentato considerevolmente il tasso degli immatricolati sui 19enni; è aumentata la percentuale dei maturi della scuola superiore che proseguono gli studi universitari; è diminuita sensibilmente la percentuale degli studenti inattivi; è aumentata la percentuale dei laureati regolari; è diminuita l’incidenza complessiva dei finanziamenti provenienti dal Miur sul totale delle entrate universitarie con un contestuale, significativo incremento delle entrate provenienti da enti diversi rispetto al ministero.
Certo, non poche criticità rimangono. Non sta certo a me rilevarle: ci auguriamo che l’istituenda agenzia per la valutazione possa contribuire alla soluzione di problemi ancora aperti quali, ad esempio, le incentivazioni nei confronti dei docenti e delle strutture in termini di performance nella ricerca, nella didattica e nella capacità di dialogare con il mercato del lavoro.
Va rivisto il sistema di finanziamento.
Vanno chiarite in fretta le norme sul reclutamento, sullo stato giuridico e sulle scuole di dottorato.
Vanno assolutamente ridefiniti i delicati rapporti fra mondo della scuola e mondo della formazione superiore, rapporti sui quali i ministri Mussi e Fioroni stanno meritoriamente intervenendo, nonché tra università e servizio sanitario nazionale senza ovviamente per questo sottrarre i policlinici agli atenei. Molta strada resta da fare, dunque.
Nel quadro di sostanziale sviluppo del sistema nazionale l’Università della Tuscia ha provato a fare la sua parte.
Permettetemi di tornare per un attimo all’immagine di S. Maria in Gradi. Alla fine degli anni Novanta questo complesso era ancora un vecchio carcere fatiscente e inutilizzabile, quasi un rudere.
In pochi anni è divenuta la sede prestigiosa dell’ateneo, situata al centro della città di Viterbo, di questa nuova Viterbo trasformatasi ormai in una “città universitaria” a tutti gli effetti.
Le antiche celle sono oggi aule, laboratori, spazi per la lettura, uffici. Gli spazi malinconici del rigore carcerario hanno subito una drastica metamorfosi.
Oggi quegli spazi sono sede di cultura, ricerca e didattica; gli studenti e gli studiosi sono tornati a passeggiare per i chiostri così come doveva avvenire quattro o cinque secoli fa quando l’abbazia era frequentata dall’ordo praedicatorum. Ecco, sarebbe sufficiente questo, gentili ospiti, a rappresentare icasticamente ciò che è divenuta l’Università della Tuscia.
Nei minuti che seguiranno proverò a sostanziare questa immagine con qualche cifra. Delineati rapidamente alcuni obiettivi e descritti alcuni “cantieri” aperti, per così dire, passerò quindi a esprimere qualche valutazione sugli ultimi anni della nostra storia universitaria dal punto di vista di chi si è trovato alla guida dell’ateneo.
Non senza ricordare il sostegno che ho avuto nel corso di questi anni da parte del pro-rettore vicario Grego, del direttore amministrativo Cucullo, dei presidi e di tutti quanti hanno lavorato negli organi di governo, negli uffici, nelle strutture a vario titolo, spesso in condizioni difficili, di emergenza, troppo spesso al di fuori di una preliminare, serena e condivisa programmazione.
In poche battute, dunque, i numeri della crescita dell’Università degli Studi della Tuscia.
L’Ateneo è cresciuto nel numero degli studenti, circa 11.000 quest’anno a fronte dei 7.800 del 2001. Dal 1984 al 2001 si erano laureati complessivamente 2.979 studenti, dal 2002 ad oggi se ne sono laureati circa il doppio 5.346; le matricole erano 1.426 nell’a.a. 2001/2002, sono state 2.885 nell’a.a. 2005/2006.
A questa crescente utenza studentesca l’Università risponde con 20 corsi di laurea di primo livello e 24 di laurea magistrale. Le Facoltà sono passate da cinque a sei grazie all’apertura della Facoltà di Scienze politiche nell’a.a. 2002/2003, Facoltà che raccoglie circa 1500 iscritti.
L’ateneo vanta oggi 122 convenzioni per attività didattiche di vario genere, 327 convenzioni per attività di collaborazione e ricerca; il totale dei Master attivati dal 2001 a oggi è di 15, un numero relativamente basso in quanto riteniamo che l’offerta dei master abbia un senso se - e solo se - altamente qualificata.
Notevole è l’investimento sempre crescente nell’offerta di alta formazione: nel 2001 i dottorati con sede amministrativa a Viterbo erano 16, oggi sono 18; non ostante che siano diminuiti i dottorati con sede fuori dal nostro Ateneo, l’Università ha investito notevolmente nei confronti dei giovani ricercatori: 124 erano gli iscritti nel 2001, 74 le borse, 54 gli assegnisti; oggi 225 sono gli iscritti, 150 le borse e 87 gli assegnisti di ricerca.
La particolare attenzione per la ricerca è comprovata dalla proficua attività svolta dai 19 dipartimenti e dai 9 centri interdipartimentali e soprattutto dal connesso incremento dei fondi di ricerca che sono passati dai 3.5 milioni di euro del 2002 ai 9.7 milioni di euro del 2005 .
Tantissimi gli interventi in Italia e all’estero: ricerche e consulenze sul turismo, sull’ambiente, sul mondo agrario, sulle comunicazioni, sull’economia territoriale, due cantieri-laboratorio di grande prestigio della Facoltà di Beni culturali a Fèrento e in Turchia.
Se si esaminano le entrate ci si accorge che il bilancio 2000 era pari a 43.9 milioni di euro di cui 32.5 di FFO consolidato e 3.62 di contributi studenteschi. Il bilancio oggi è di 61.5 milioni di euro di cui 37.6 di FFO consolidato e 5.9 di tasse studentesche.
Nel solo triennio 2004/2007 il contributo del FFO sulle entrate complessive è diminuito dall’83% al 79% laddove le entrate da altri Enti sul totale sono salite dallo 0.17% al 3.22%.
Quest’ultimo dato è assai significativo. E’ il risultato di un consolidamento dei rapporti finanziari tra Università e altri Enti quali il Comune, la Provincia, la Camera di Commercio e la Fondazione Ca.ri.vit.
Detto contributo si è ulteriormente incrementato quest’anno per il sostegno della Cassa di Risparmio di Viterbo, per una serie di progetti facenti capo agli assessorati regionali della Costa e di Ranucci e, in misura cospicua, per via di alcune convenzioni stipulate con il ministro della Pubblica Istruzione Fioroni. A tutti costoro va il ringraziamento dell’ateneo.
Sul piano politico e gestionale l’Università si è posta in questo ultimo periodo l’obiettivo di una più efficace valorizzazione dei prodotti di eccellenza della ricerca attraverso strumenti innovativi come gli spin-off, per i quali è stato approvato un regolamento apposito che ne disciplina attivazione e funzionamento, e attraverso rapporti più organici e continuativi con il mondo delle imprese, che rappresenta ormai un fattore imprescindibile per il finanziamento delle attività di ricerca. In tale ambito si segnala il progetto interateneo finanziato dal ministero sul liaison network (con Campobasso, Cassino e Salerno).
Quest’anno il nostro ateneo ha inoltre raddoppiato il numero dei progetti PRIN 2006 ammessi e finanziati aventi per Coordinatori docenti dell’Università della Tuscia. Resta aperto il nodo di un più efficace coordinamento delle iniziative di eccellenza e di un miglior utilizzo delle attrezzature alla luce anche dei suggerimenti che proverranno dall’istituenda Commissione ricerca.
Analogamente vanno ripensati i meccanismi di monitoraggio e di razionalizzazione delle risorse: su questo so che il Nucleo di Valutazione sta lavorando alacremente.
L’Amministrazione ha rivolto particolare attenzione ai servizi, mediante una attenta ricognizione delle esigenze studentesche.
Tra i servizi agli studenti particolare rilievo assume l’iniziativa in corso di realizzazione relativa alla diffusione del collegamento wireless in alcuni spazi comuni delle Facoltà che consente di utilizzare la rete internet, senza alcun costo per lo studente, anche da un computer portatile o da un telefono cellulare.
Sono stati inoltre molto fruttuosi i rapporti con l’Agenzia regionale per il Diritto allo studio che hanno consentito una serie di agevolazioni per gli studenti in materia di trasporti, di alloggi e di assistenza sanitaria e psicologica.
Un ringraziamento per tale sensibilità al Commissario Guglielmino e a Monarca dell’Unità territoriale viterbese. Ovviamente noi, come le altre Università del Lazio, ci auguriamo che la ventilata soppressione dell’A.Di.SU. sia un incubo privo di qualunque consistenza.
Comunque - non ce lo nascondiamo - molto va ancora realizzato in questo delicatissimo settore dei servizi agli studenti.
Dall’esame degli organici del personale va ravvisato un positivo incremento numerico dei docenti e per quanto riguarda il personale tecnico-amministrativo una forte crescita professionale e di carriera evidenziata dal numero dei dipendenti nelle categorie più alte.
Il patrimonio immobiliare, infine, ha subito un notevolissimo ampliamento dopo il 2000.
Nel centro storico risultano ulteriori edifici per 24mila mq quali il recupero del S. Carlo con Scienze Politiche e l’acquisizione delle ex- “casermette-Palmanova” con Economia.
Nella zona Riello gli incrementi sono per un totale di 35mila mq. La superficie complessiva dei terreni è nel centro storico di 65mila mq e nella Zona Riello di 400.500 mq.
Con il trasferimento della facoltà di Lingue a S. Maria in Gradi si va precisando il progetto della riallocazione delle strutture fra campus scientifico-tecnologico ed edifici storici per le facoltà scientifico-umanistiche.
Spero, gentili ospiti, di essere riuscito a trasmettervi il quadro di un ateneo fondamentalmente sano, in continuo sviluppo e in grado di affrontare le sfide regionali, nazionali e soprattutto internazionali che lo attendono.
Aggiungo subito che è mia profonda convinzione che la sfida della competizione si vince anche mediante una stretta sinergia con le altre università.
Competizione e collaborazione non sono termini mutuamente esclusivi. Visto che l’università è un bene pubblico, un patrimonio differenziato di conoscenze a disposizione di tutti, non è la presunta competizione per un altrettanto presunto mercato a dover prevalere fra gli atenei.
In tal senso e con questo spirito vanno interpretati i tanti successi ottenuti dalla nostra Università in sinergia con l’Università degli Studi “La Sapienza” nei poli decentrati di Rieti e di Civitavecchia, nonché gli ottimi rapporti con altre realtà territoriali nelle sedi di Velletri e di Fondi, dove si sta creando un’interessante collaborazione con l’Università degli Studi di Cassino.
Dal contesto entro cui si è operato di recente sorge inevitabile una riflessione sull’iter autonomistico di questa università, nel quadro più vasto della contrastata storia dell’autonomia universitaria negli ultimi anni. Vengo così al secondo e ultimo ordine di considerazioni di questa prolusione.
Prima di predisporre la mia relazione ho esaminato quella relativa all’ultima Inaugurazione di anno accademico, svoltasi nel 2001-2002, per individuare il punto di partenza del mio intervento di oggi; tra l’altro questo è il motivo per cui ho posto a confronto i dati sulla performance attuale del nostro ateneo con quella del 2001-2002.
E’ stata l’occasione per effettuare un bilancio o, come si direbbe nell’orribile e proibito gergo concorsuale, una valutazione comparativa. Ieri e oggi, dunque: l’autonomia prima e l’autonomia dopo il varo del D.M. 509/99, del “3+2”; ma soprattutto l’autonomia alle prese per la prima volta con le reali conseguenze della L. 537/93, in particolare con l’autonomia finanziaria, visto che con l’art.19 della legge 488/1999 per la prima volta sono stati posti a carico dei bilanci delle Università gli incrementi stipendiali del personale.
Se ne potrebbe dedurre, gentili ospiti, che un periodo peggiore di questo per fare il rettore non poteva capitarmi!
A parte gli scherzi, in occasione dell’inaugurazione del 2001-2002 mi ero soffermato ad illustrare il percorso seguito da questo ateneo dal 1999 al 2001.
La Tuscia si era concentrata in quegli anni a dar corpo al processo di autonomia e di radicale riforma introdotto con forte accelerazione dalle leggi di quel periodo in diversi segmenti del sistema universitario, in applicazione degli artt. 6 e 7 della Legge 168/89, la Legge Ruberti.
Per governare in modo corretto e responsabile l’autonomia universitaria l’ateneo si dotò di un nuovo regolamento generale, di un nuovo regolamento per l’amministrazione, la finanza e la contabilità e di un nuovo regolamento didattico.
In quest’ultimo veniva a confluire la riforma degli ordinamenti, del cosiddetto “3+2”, cui si sono successivamente applicati drastici ridimensionamenti alla luce di quanto previsto dal DM 15/05 e dai cosiddetti “requisiti minimi”.
La riforma normativa e amministrativa è stata seguita da una radicale revisione organizzativa delle strutture in applicazione del principio di decentramento gestionale introdotto dal nuovo regolamento per l’amministrazione.
Profitto, di passaggio, per osservare come del grande sforzo autonomistico delle Università, unico nella storia delle amministrazioni pubbliche del nostro Paese, accompagnato da un primo imperfetto quanto si vuole sistema di autovalutazione, non si sente mai parlare.
E’ stato autorevolmente scritto che l’autonomia non si limita più a comprendere “solo l’autogoverno e l’autoamministrazione ma investe le modalità di esercizio delle molteplici funzioni conferite all’università”.
A questo risultato, pienamente riconosciuto ormai da numerose sentenze della Corte costituzionale, si è giunti attraverso un percorso faticoso, sostenuto bensì dalle grandi innovazioni normative degli anni Novanta, ma realizzato pressoché esclusivamente mediante un iter di riflessione interna agli atenei.
La prima tappa è stata l’emanazione dei nuovi statuti di autonomia.
Un processo di grandissima rilevanza, difeso strenuamente, che ha dimensioni e tratti comparabili solo con le realtà degli enti territoriali. Eppure, nei tanti dibattiti, conferenze, incontri e articoli l’esperienza acquisita nel mondo universitario sulla governance è vista con fastidio, quasi come una sorta di astuzia autoreferenziale.
Ma io mi chiedo e vi chiedo: chi altri nel settore pubblico ha prodotto una simile trasformazione in così pochi anni? Ben vengano nuove proposte su tali tematiche ma senza dimenticare quanto è stato fatto finora, senza buttare nel cestino un lavoro straordinario, esperienze e riflessioni a oggi uniche nella pubblica amministrazione.
Come si può vedere l’Università della Tuscia, a cominciare da chi vi parla, aveva scommesso con entusiasmo e con determinazione sull’autonomia universitaria. Noi ritenevamo che l’autonomia universitaria fosse l’unico vero strumento per conferire ai singoli atenei, e dunque anche al nostro, il ruolo politico che legittimamente spetta loro nella formazione e nel progresso di questo Paese.
Noi lo ritenevamo; io per primo ne ero convinto, tanto da imprimere un’accelerazione, non priva di resistenze anche comprensibili, alla struttura dell’università.
Oggi questa mia convinzione si è fortemente indebolita non tanto e non solo per le inevitabili delusioni ed amarezze che provengono da una gestione divenuta complicata sia verso le componenti interne sia verso i vari interlocutori politici. La mia delusione appare motivata soprattutto dall’abnorme distorsione che ha subito l’impianto autonomistico nel corso degli ultimi anni.
Un assetto normativo potenzialmente semplice e agile si è andato progressivamente incrostando mediante il successivo e disordinato stratificarsi di vincoli normativi più o meno costituzionalmente legittimi.
I poteri di indirizzo si sono trasformati in vere e proprie ingerenze normative e gestionali, l’autonoma programmazione, affidata ai difficili equilibri delle reti territoriali, è stata svuotata di ogni reale capacità di incidere.
Infine la questione finanziaria. Da anni la Crui va sostenendo la necessità di svincolare l’azione dell’università dal cappio delle leggi finanziarie che sono ormai l’unica variabile in funzione della quale il sistema si muove, cresce o, il più delle volte purtroppo, si ferma, rimane stagnante.
E’ precisamente dal 2001 in poi, proprio quando nel nostro ateneo, come negli altri, si cominciavano a consolidare assetti organizzativi e gestionali autonomi che sono intervenuti una serie di provvedimenti e una pletora di norme statali da cui è scaturita una forte battuta di arresto nei confronti del processo di autonomia.
A parte gli assurdi provvedimenti di blocco delle assunzioni reiterati per anni, l’immediato passato si è contraddistinto per leggi e decreti in alcuni casi assai contestabili: dal decreto sul riordino delle scuole per interpreti e traduttori, varato senza parere dei comitati di coordinamento, all’istituzione e attivazione delle università telematiche senza acquisire alcun parere vincolante delle reti universitarie territoriali, alle contestate leggi 43/2005 e 230/2005 che limitano fortemente la capacità di programmazione degli atenei.
Infine, la legge Bersani che altro non è pochi lo sanno che il frutto di un “copia-incolla” di una legge varata dalla precedente legislatura, con una singolare “magia dei numeri”, come ebbi modo di osservare in un articolo di qualche mese fa: la legge 248/05 è infatti puntualmente replicata dalla legge 248/06, appunto la legge Bersani (a parte che il prelievo è raddoppiato).
Al riguardo un segnale di speranza e di riapertura del dialogo con gli atenei è l’ordine del giorno varato dalla Camera nella seduta del 21 dicembre scorso che impegna il governo a valutare, in sede di trimestrale di cassa, l’opportunità di escludere le università dall’applicazione della legge, fortemente penalizzante per i nostri bilanci.
E’ una ripresa del confronto, confermata, come ha osservato il presidente Trombetti qualche giorno fa, dalle dichiarazioni successive all’incontro di Caserta.
Su molti di questi argomenti l’attuale ministro sta cercando di porre riparo, per fortuna, e si è dichiarato disponibile ad un serrato colloquio con la Crui; l’importante mi permetto sommessamente di osservare - è che ciò avvenga all’interno di quel difficile equilibrio tra i poteri di indirizzo ministeriali e l’autonomia degli atenei, nel rispetto della distinzione dei ruoli.
Se il fronte normativo ha penalizzato le Università nel cuore dell’autonomia, quello finanziario le ha soffocate del tutto sacrificando ogni velleità di sviluppo degli atenei. L’attuale contesto finanziario mina ogni certezza anche quella più banale di sopravvivenza.
L’esiguità degli attuali finanziamenti ministeriali da un canto, la coatta riduzione delle spese dall’altro contribuiscono a rendere difficile per l’ateneo finanche la corresponsione degli incrementi stipendiali al personale, la prestazione dei servizi agli studenti nonché il normale funzionamento delle strutture.
Come non perdere in questo scenario la fiducia nell’autonomia intesa come strumento di sviluppo, di crescita e di differenziazione? Come non affermare che un’autonomia svuotata di contenuti e di risorse diviene uno strumento inefficace, irrilevante, inutile se non addirittura dannoso?
Questo panorama è ancor più desolante se si considera il ruolo centrale che il sistema universitario riveste nella prospettiva di sviluppo e di rinnovata crescita del Paese. Domandiamoci a questo punto se l’autonomia universitaria non debba essere radicalmente ridisegnata nei termini della governance, del sistema del finanziamento e dei rapporti con il tessuto produttivo.
La Conferenza dei rettori ha deciso da poco di pianificare una vera e propria offensiva mediatica ma anche e soprattutto - di contenuti su questa tematica.
Dobbiamo rispondere, mi verrebbe da dire, dobbiamo attaccare per primi a fronte delle tante sollecitazioni che provengono da diversi settori del Paese, dobbiamo rispondere anche per fare chiarezza nei confronti dell’opinione pubblica a cui è stata propinata un’immagine sbagliata dell’autonomia sotto tanti punti di vista.
E’ evidente che bisognerà prestissimo arrivare a una nuova architettura dell’autonomia universitaria che lasciatemelo dire con chiarezza - non può essere quella che sembra volere Confindustria.
Lo ripeto. L’autonomia non è selvaggia competizione ma confronto costruttivo tra realtà diverse che si integrano: la stessa distribuzione territoriale e la finalità sociale degli atenei nel nostro Paese impedisce qualunque diversificazione tra teaching universities e research universities, nonché tra atenei di serie A e di serie B.
Offrire un servizio pubblico di qualità a quei quasi due milioni di studenti che lo esigono, siano essi del sud o del nord, siano essi indigenti o benestanti: questo e non altro è il nostro compito.
Il nodo centrale è ovviamente, come accennato, il sistema di finanziamento.
E’ giunto il momento di ridisegnare quello che dovrà essere il nuovo metodo per finanziare il sistema universitario, ridisegnarlo in maniera chiara, stabile, se possibile condivisa, facendo sì che ognuno degli attori si assuma in pieno il ruolo che gli compete: lo Stato, quello di garantire la sopravvivenza di un sistema pubblico e di valutare l’uso delle risorse, gli atenei quello di una responsabile e consapevole programmazione e gestione.
Per questo la politica di finanziamento pubblico degli atenei deve sostenere stabilmente la fisiologica crescita degli oneri cui questi sono esposti.
Pur dovendo prevedere quote di finanziamento collegate alla valutazione dei risultati non si può prescindere dalla necessità di assicurare ex ante quote certe, sulla base degli stanziamenti contenuti nella legge finanziaria, almeno a parziale copertura degli incrementi dei costi fissi (sui quali gli atenei non possono intervenire in alcun modo).
Questa “quota di garanzia” per i bilanci potrebbe essere variamente parametrata e rappresenterebbe una sorta di elemento “comune” tra il bilancio dello Stato e i bilanci degli atenei, soprattutto a livello programmatorio se predefinita per un arco temporale che vada oltre l’anno.
Su questa, e oltre questa, andrebbe poi innestata annualmente una “quota di incentivazione” attraverso cui premiare esclusivamente i buoni risultati.
E’ chiaro che uno snodo fondamentale del sistema ed un punto di elevata criticità si ritrova sul fronte del rapporto tra Assegni Fissi e FFO e più in generale della politica di reclutamento degli atenei.
Il modello varato nel corso del 2005 per la programmazione delle assunzioni di personale (pro.per.cineca), pur essendosi rivelato un utile strumento per la programmazione ex ante, potrebbe a tal fine essere integrato tenendo in maggiore conto le specificità dei diversi atenei e del rispettivo contesto socio-economico.
In definitiva, in assenza di una politica di significativo finanziamento ministeriale, alle condizioni sopra illustrate tanto vale rinunciare a una porzione di autonomia, precisamente a quella relativa agli organici.
Ma una simile conclusione sarebbe un pieno fallimento e una regressione per il sistema universitario che noi non possiamo certo auspicare.
Come potete vedere e concludo - il sistema universitario si muove tra Scilla e Cariddi: un’autonomia irresponsabile rischia di provocare il collasso finanziario nel giro di pochi anni, un’eteronomia eccessiva rischia di annullare, frantumare e polverizzare le conquiste e gli obiettivi conseguiti nel corso di questi anni da parte di tutti coloro che operano nelle università.
Noi confidiamo in chi ci sta ascoltando.
Confidiamo, ministro Mussi, che lei, studioso di filosofia, non abbia dei professori la stessa opinione che nutriva un filosofo come Schopenhauer che arrivò a scrivere: “la filosofia di Kant sarebbe stata molto più grandiosa, più decisa, più pura e più bella, se egli…non avesse ricoperto il posto di professore!”.
Ma si sa: Schopenhauer era un linguacciuto.
Seriamente, gentili ospiti. E’ il tempo delle scelte, coraggiose, condivise, responsabili.
Ce lo chiedono gli studenti, ce lo chiede il Paese.
Tornare a investire sull’università nel suo complesso, statale e non statale, non risponde a una logica corporativa, come purtroppo qualcuno continua ad affermare, ma alla semplicissima logica del progresso.
Senza un’università pienamente funzionante ed efficiente questo Paese non ha futuro.
Tale è il messaggio che lanciamo ai nostri autorevoli interlocutori qui convenuti.
Con questo messaggio dichiaro solennemente aperto l’anno accademico 2006-2007, XXVII dell’Università degli Studi della Tuscia.
Marco Mancini
Magnifico rettore dell’Università della Tuscia