Riceviamo e pubblichiamo - In occasione della Conferenza dei servizi, indetta dalla Ausl di Viterbo, tenuta il 19 giugno 2008, in qualità di Coordinatrice del Tribunale per i Diritti del Malato, sezione di Viterbo, ho avuto modo di esporre le nostre convinzioni sul tema della “Centralità del malato, persona e non solo utente”. Riteniamo sia necessario, oggi, attraverso gli organi di stampa, ribadire e portare a conoscenza di un pubblico più ampio, alcune di esse.
Dal nostro osservatorio del Tribunale per i Diritti del Malato sulla base di quanto ci viene quotidianamente riferito da tanti utenti, riscontriamo che la relazione interpersonale che si stabilisce tra medico e malato si configura spesso come relazione anomala, poiché il medico è indotto, per ragioni che dovrebbero essere meglio comprese, ad entrare in rapporto esclusivo con la malattia trascurando del tutto il portatore della stessa.
Agli occhi del medico c’è solo una fisicità, un corpo, involucro della malattia e il sé, come persona immersa nella complessità delle emozioni e della vita di relazione, semplicemente sparisce.
Si verifica una soggezione crescente del paziente durante un ricovero, man mano che sale la gerarchia di chi lo ha in carico. Ma nessuno osa dire nulla poiché nello stato di vulnerabilità indotto dalla malattia si ha il terrore che qualsiasi protesta si potrebbe volgere a proprio sfavore. C’è in gioco la propria salute: meglio ignorare tutto…e poi rivolgersi al T. D. M..
Eppure, nella fragilità prodotta dal male, c’è un affidarsi incondizionato : “Dottore, sono nelle sue mani!”. E’ questa, una dichiarazione di cieca fiducia, quasi un atto di sudditanza o sottomissione liberamente scelto, nei confronti di chi ha intrapreso un percorso professionale alimentato da forti motivazioni umane e da grandi ideali.
Quello del medico non è un lavoro scelto per caso! Quindi il paziente ha la ferma convinzione che ci si prenderà cura di lui. In realtà si accorge presto che non c’è spazio per l’ascolto di piccole e grandi domande perché il dottore è li per curare i suoi disturbi che sono tutti racchiusi nella cartella clinica gelosamente nascosta alla consultazione dei non addetti ai lavori.
Non c’è bisogno di dialogare né, tanto meno, spesso il medico sente il dovere di soppesare parole e azioni che potrebbero lacerare la pelle di carta velina di chi sta male. Gli addetti ai lavori obietteranno:” Ma non è questa la realtà!”.
Questa è, comunque, la realtà percepita che ha dolorose ripercussioni sull’equilibrio emotivo e sulla stima di sé, di chi la vive.
Non possiamo non tenerne conto.
Se la ricerca in campo biomedico segmenta la realtà corporea in elementi sempre più piccoli permettendo la formazione di alte specializzazioni e necessità, in ragione di questo, della separazione tra mente e corpo, la relazione terapeutica si fonda proprio sulla loro integrazione. La medicina moderna sembra stia perdendo l’enorme potenziale terapeutico racchiuso nella relazione medico-paziente nella quale l’attenzione è posta sull’uomo malato e non solo sull’aspetto morboso.
Attraverso le esperienze vissute e riferite da quanti si rivolgono al T. D. M., non emerge a tutt’oggi una diffusa pratica di relazione terapeutica, vero punto di incontro tra l’esperienza soggettiva della sofferenza e la visione oggettiva medico-scientifica per definire insieme:
- il problema;
- gli obiettivi;
- gli strumenti terapeutici;
In un dialogo costante e rassicurante tra le due parti sarebbero garantiti, con reciproche soddisfazioni,
- il diritto a ricevere informazioni esaurienti e corrette (da non confondere con il
Consenso informato);
- il diritto a mantenere una propria sfera di decisionalità e responsabilità in merito alla
propria salute;
- il diritto a fruire della qualità nella prospettiva di un miglioramento del proprio stato;
Una relazione terapeutica così intesa rappresenterebbe un valore aggiunto nel rapporto tra Assistenza Sanitaria e territorio, poiché ad un utente soddisfatto corrisponde un operatore soddisfatto.
Forse sarà necessario scardinare il “..si è sempre fatto così!..”, e cambiare il modo con il quale si guardano le cose. Infatti l’affermazione che abbiamo avuto modo di ascoltare fatta da un medico e condivisa da altri suoi colleghi presenti secondo la quale “ Deve essere garantito un trattamento uguale per tutti, senza privilegi” assumerebbe altro senso se letta alla luce del punto di vista di un Don Milani :
“Non c’è nulla di più ingiusto quanto
far le parti uguali fra diseguali”.
Infatti, una persona non è sempre e solo affetta dalla patologia per la quale è stata portata d’urgenza in ospedale.
Ipotizziamo, ad esempio, il ricovero al Pronto Soccorso di un non vedente anziano.
La realtà nella quale è immerso, in quel momento d’emergenza, è un luogo sconosciuto del quale percepisce voci, rumori, odori…e la sua paura.
Ipotizziamo che la moglie sia, da sempre, i suoi occhi e la sua sicurezza.
Perché a questa donna deve essere impedito di continuare a stargli vicino obbligandola ad aspettare in sala d’attesa? Perché sarebbe un privilegio?
Essere ciechi è allora un privilegio!
Il T. D. M. più volte, e spesso inutilmente, si è fatto portavoce dell’esigenza di aver premura nel sincerarsi delle diverse situazioni umane e di consentire la vicinanza di una persona cara dalla quale non si potranno che ricevere informazioni utili e gratitudine immensa.
Il trattamento uguale per tutti, senza privilegi, sta sicuramente nell’accuratezza tempestiva della diagnosi e cura. Questa è vera giustizia. Non altro.
Anna Maria Calevi
Tribunale per i diritti del malato