Riceviamo e pubblichiamo - Ci sono tanti modi di morire, di oltrepassare quell’esile confine che separa la vita e la morte. Si può morire: soli, abbandonati da quel mondo che, comunque si lascia, ma con serenità, più o meno appagati da quello che si è fatto durante la vita.
Oppure, sempre soli, ma accompagnati ed immersi in dolori atroci che ci ripropongono e “ impongono” impietosamente la nostra natura umana.
E’ indubbio che l’attimo cruciale del “trapasso” sia per sua natura una vicenda personale, estremamente personale, in quanto coinvolge due attori principali: “la propria vita” e “la propria morte”.
Ed è per questo che è necessario poterlo affrontare nel modo più sereno possibile.
Io ho avuto la fortuna di incontrare chi ha saputo accompagnare mia madre nel suo ultimo passaggio, il più delicato. Parlo della struttura Hospice di Villa Rosa a Viterbo. Struttura dedicata all’accoglienza dei malati terminali .
E’ così inusuale al giorno d’oggi incontrare tale accuratezza, professionalità e dedizione al lavoro da parte di operatori a tutti i livelli, dai semplici inservienti agli infermieri ai medici, che non si può non rimanerne piacevolmente colpiti e grati.
I primi giorni dell’”assistenza domiciliare” non mi capacitavo di essere qui a Viterbo, per di più a casa mia. E non catapultato in qualche serial televisivo in cui tutto procede con un’efficienza per noi quasi irreale ed innaturale.
La visita giornaliera di medici o infermieri aldilà dell’indubbio valore terapeutico, da al malato la percezione che non è solo, non è rimasto solo a lottare contro un nemico troppo forte per lui.
C’è chi lo aiuta e lo supporta nell’affrontare la dura battaglia.
Nello scrivere queste poche righe non ho altro fine se non quello di far conoscere un realtà che mi permette di affermare che anche da noi c’è una sanità che funziona, un vero peccato siano così rari ed isolati esempi. Questo a dimostrazione che dove c’è volontà, serietà e dedizione verso quello che si fa qualcosa di buono di realizza e piccoli fiori di speranza sbocciano.
Il dolore fa parte della condizione umana purtroppo, però il poter essere leniti della sua virulenza nell’affrontare momenti cruciali della propria esistenza permette agli ammalati in primis, ed ai loro familiari, che li assistono, di riflesso, un coinvolgimento più sereno ed emotivamente distaccato anziché stravolto dalla sofferenza necessariamente partecipata del proprio congiunto.
Porre come scopo primario del proprio lavoro il dare la possibilità di affrontare l’ultimo decisivo stadio della propria vita, sollevati dal peso, spesso troppo pesante, di atroci dolori, alle persone colpite dal più spietato dei mali, è perlomeno meritorio.
Ed è proprio per questo che desidero pubblicamente ringraziare il dottor Galli e la sua intera équipe che hanno permesso a mia madre di lasciare questo mondo che l’ha ospitata durante la propria vita, almeno senza atroci sofferenze, ed hanno consentito a me di “salutare” una mamma, verso la quale non avrò mai sufficiente gratitudine e riconoscenza, non coinvolto dalla straziante sofferenza del proprio genitore.
Assistendo una persona che oramai ha imboccato in modo ineluttabile la strada del non ritorno, si avverte a volte un senso di inadeguatezza : si avverte una sensazione di non poter fare abbastanza. Di fronte alla sofferenza di un nostro caro vorremmo poter fare di più, vorremmo dare tutti noi stesi pur di alleviare le sue sofferenze.
Quando l’intervento terapeutico mira a ridurre al minimo tali sofferenze inevitabilmente ci si sente un po’ sollevati e sereni e forse ci è consentito trasmettere al familiare un po' di serenità anziché aggiungere la nostra disperazione al suo dolore.
Maurizio Rattotti