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Aspettando il 3 settembre - Il presidente del Sodalizio racconta la sua prima volta da facchino
Quando il ritiro si faceva alle Scole Rosse
di Massimo Mecarini
Viterbo - 31 agosto 2009 - ore 3,35

Massimo Mecarini al suo primo trasporto
- Nella carriera di un Facchino due sono, a parer mio, i momenti cruciali: il primo si riconduce con certezza all’esordio, il secondo va di pari passo con il momento in cui, finalmente, dopo anni di attesa, si arriva a ciò che viene considerato il top della carriera stessa, quando cioè si “accapezza” il ciuffo, ci si pone sotto “al travo” con entrambe le spalle, si comincia a “massacrare” definitivamente la propria colonna vertebrale, a farsi venire, usando sempre il vernacolo, il “bozzo sul cotozzo”.

Ma poiché il secondo momento può seguire il primo, come si diceva, dopo un certo considerevole ed estremamente variabile numero di anni, è opinione diffusa che il momento in cui si indossa la divisa per la prima volta, vale a dire l’esordio, sia di gran lunga più emozionante del secondo.

Trent’anni fa, nel 1979, esordiva anche Spirale di Fede, indimenticata Macchina che seguì il mitico Volo d’Angeli.

La macchina di Palazzetti-Valeri raccoglieva infatti un’eredità pesante, dopo 12 trasporti della creatura zucchiana, destinata a rimanere così tanto impressa nell’immaginario collettivo, sia per la sua bellezza, impreziosita dall’essere stata uno spartiacque rispetto al passato, sia per il fermo del 1967, una vera tragedia per tutti.

Spirale di fede era comunque diretta a entrare nella storia, non fosse altro perché, oltre a essere una bellissima Macchina, ebbe due trasporti straordinari, di cui uno il 27 maggio 1984, dedicato a Giovanni Paolo II, in visita pastorale a Viterbo.

Proprio trent’anni orsono, nel 1979, ebbi la ventura di entrare a “fare il Facchino” come si dice a Viterbo, di varcare cioè la soglia del gotha degli eletti.

Superai, sotto lo sguardo burbero, vigile ma bonario di Nello Celestini, la prova di portata, che quell’anno si tenne non già nella ex Chiesa della Pace, inagibile per lavori, bensì nell’androne di palazzo Borgognoni; per la cronaca anche l’anno successivo la location della prova non fu la Chiesa, ma la palestra della scuola Luigi Concetti.

Poi mi giunse la comunicazione verbale e diretta (“fatte ‘l vistito!”, sic) che da quell’anno sarei stato un Facchino, un sogno maturato sin dall’infanzia e visto realizzarsi proprio quell’anno, ma con l’ansia di vedermi, di lì a poco, recapitata la famigerata cartolina rosa (che invece era azzurra) per il servizio militare, che avrebbe potuto vanificare tutto.

La cartolina arrivò puntualmente a metà agosto, ma per fortuna con partenza l’undici settembre, destinazione Asti.

Non stavo più nella pelle. Corsi allora a farmi il “vistito”, seguendo vaghe indicazioni di come dovevano essere i vari capi di vestiario, soprattutto i pantaloni, che ognuno aveva diversi dall’altro.

Il 3 settembre si avvicinava lentamente quell’estate, contavo i giorni e non finivo mai di provarmi e riprovarmi quell’uniforme tanto agognata.

Infine arrivò il giorno fatidico. Dopo una notte passata quasi in bianco e una mattinata di impazienza, verso l’una e mezza mi vestii e scesi in strada avviandomi verso il ritiro fissato, come sempre, alle due del pomeriggio, ma nello striminzito cortile della scuola Luigi Concetti, che i viterbesi doc conoscono come le “Scole Rosse”, per via di quel rosso sbiadito con cui era tinteggiato tutto l’edificio.

Camminando a un palmo da terra, tanta era la soddisfazione di avere la divisa indosso, lungo il viale Bruno Buozzi iniziai ad incontrare altri Facchini, qualcuno dei quali già conoscevo, ma perlopiù gente mai vista prima.

Uno di questi “sgamò” a prima vista che ero un neofita e, apostrofandomi con un “Tu che sei novo?”, assestandomi una pacca sulle spalle mi introdusse nel gruppo. Pieno di rispetto verso questi Facchini esperti mi accodai a loro fino al cortile delle “Scole Rosse”, dove la voce stentorea del grande Nello sciorinava uno a uno i nomi dei Facchini per il consueto appello.

Varcai il cancello guardato a vista da Gino, un gigante con due mani che parevano due “cofane”, il quale aveva e manteneva fermamente la consegna di non fare uscire nessun Facchino, guai a chi ci provava. Quando alla fine Nello chiamò il mio nome a stento riuscii a rispondere “presente!” tanto ero emozionato.

Finiti gli adempimenti di rito e i saluti mai troppo brevi dei politici di turno, ci inquadrammo per la sfilata delle “sette chiese”. Fiondato in una realtà mai vissuta e frastornato dagli eventi mi ritrovai, felicissimo di esserci, in ultima fila insieme ad altre “reclute”.

Conservo un ricordo indelebile di quella mia prima sfilata, mi sembrava tutto un sogno, e invece era realtà.

Terminato il tour de force delle sette chiese, facemmo ritorno al cortile delle “scole rosse”, perché quello era il luogo deputato alla merenda/cena, tra polvere, banchi di scuola, seggiole piccine che sparivano sotto ai corpi di certi Facchini grandi e grossi e, soprattutto, vivande ricche di varietà e in quantità: fettuccine, pappardelle alla lepre e al cinghiale, arrosti vari, persino fagiano in salmì, tanto per citare alcune delle numerose pietanze, tutte portate da casa.

Io, in piedi, un po’ defilato e in religioso silenzio, con in mano il cestino che ogni Facchino aveva ricevuto, mangiucchiavo il mio panino, guardandomi attorno meravigliato da tutta quell’umanità gioiosa, ammassata in poche decine di metri quadrati.

Salutati parenti e amici, venne allora il momento topico, quando cioè il Facchino comincia a raccogliersi e a prepararsi per ciò che è chiamato a fare, a portare la “Machina”.

Io, come novizio, ero stato destinato alle corde.

Di nuovo inquadrati ma ora con uno spirito diverso dal pomeriggio, partimmo alla volta di Santa Rosa, per marciare lungo il percorso della Macchina, in senso contrario.

Tra ali di folla plaudente e commossa raggiungemmo San Sisto, dove ci aspettava Spirale di Fede nuova di zecca e tutta illuminata. Dentro la chiesa, dove ricevetti la mia prima benedizione in articulo mortis, regnava un mistico silenzio, pregno di emozione.

Dopo la benedizione tutti fuori per l’inquadramento davanti alla Macchina splendente. Io guardavo estasiato le file dei Ciuffi entrare sotto la base della Macchina ed ascoltavo i comandi impartiti dalla costruttrice Maria Antonietta Palazzetti, anche se poi la Macchina fu guidata magistralmente dal marito Rosario Valeri.

“Sollevate e fermi!” la Macchina ebbe un sobbalzo. “Per Santa Rosa Avanti!”.
Seguì un trasporto che scorse via piuttosto regolarmente e del quale ho dei brevissimi flash.

In piazza del Teatro venne il mio momento. Al comando “sotto con le leve e via le corde” iniziai a tirare il canapo come un forsennato, tanto che arrivai in cima con un fiatone da record.

Lì mi voltai e vidi Spirale di Fede girare, avvitarsi nel cielo e posarsi leggera di fronte alla Basilica. “Santa Rosa Fuori!”: il miracolo era compiuto un’altra volta. Rosina in cima svettava benedicente.

Mi tuffai tra gli altri Facchini in un abbraccio di fede, gioia, sudore e umanità, che mi è rimasto attaccato alla pelle e al cuore.

Da quella sera sono trascorsi trent’anni. Ho avuto l’onore di portare la Macchina trentadue volte di cui trenta come Ciuffo, ho avuto il privilegio di portare cinque modelli di macchina e la fortuna di essere stato sempre presente, di non aver avuto infortuni, di non aver mancato mai un appuntamento.

Oggi mi accingo a partecipare al mio trentatreesimo trasporto, rinunciando, per mia scelta e per coerenza, all’onore del Ciuffo, ma posso affermare con assoluta certezza che quell’emozione, quelle vibrazioni, quella gioia che ho provato il 3 settembre 1979 rappresentano il leitmotiv che ha accompagnato tutta la mia carriera di Facchino di Santa Rosa, sensazioni uniche che porterò con me tutta la vita.

Massimo Mecarini
Presidente del Sodalizio dei Facchini

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