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L'opinione di uno sporco comunista
Siamo sicuri che la democrazia ci serva?
di Valerio De Nardo
V
iterbo - 1 maggio 2009 - ore 2,00

- Woody Allen: «Dio è morto, Marx è morto, Freud è morto ed anche io non mi sento molto bene».

Esaurite le vecchie, grandi narrazioni, decretata la morte delle ideologie, paiono rimanere solo i nuovi, piccoli format televisivi, che non scaldano il cuore con la passione, né interrogano le coscienze. Regalano soltanto un po’ di voyeurismo e volgarità a buon mercato.

Intanto la sensazione è che si sia tutti un po’ più soli, che si abbia un po’ più di paura, se pure con il pudore di confessarlo agli altri. La terra trema, la crisi finanziaria ed economica spazza via certezze, mentre virus mutanti mettono in sospetto contatti e respiri. Le nostre fragili biografie fibrillano.

Può darsi pur che il 22.12.2012 non succeda nulla, o la fine del mondo. Intanto si potrebbe evitare di riaccendere il nucleare a Montalto come in tutta Italia. Si potrebbe evitare di costruire un ponte fra strade e ferrovie precarie nel punto a più alto rischio sismico del Mediterraneo.

Ma c’è bisogno di questa ipocrisia populista? Ci occorre questo paternalismo aziendalista? Forse è vero che il fascismo è stata l’autobiografia di una nazione e che di quella protezione, di quel senso di rassicurazione si senta effettivamente il bisogno lungo lo Stivale.

Ma siamo sicuri che questa è la strada migliore per la democrazia? Oppure: siamo sicuri che ci serva la democrazia?

Che problema c’è se le veline si candidano? Dopo un calendario ben fatto si può diventare ministri. E dopo un giro in parlamento si può vincere L’isola dei famosi. Peraltro le ultime tendenze, segnalate da critici autorevoli, richiedono una certa abbronzatura anche ai presidenti degli Stati Uniti. A chi può essere negato un quarto d’ora di notorietà? A chi un vitalizio e qualche benefit dopo una legislatura?
La politica, questa politica, è divenuta lo zerbino dell’antipolitica. Nelle scuole andrebbero fatti leggere e discussi i lavori dell’Assemblea Costituente, ne andrebbe fatta percepire la potente forza morale. Andrebbero rilette, come ha fatto l’altra sera in tv il professor Zagrelbesky, le lettere dei condannati a morte della Resistenza.

Il 25 aprile è una ricorrenza fastidiosa. Richiede esercizio della memoria, impegno alla riflessione, confronto con i valori e le verità della storia. Tutto materiale che male si addice all’epoca dei reality.

Provate a pensare al reality "In montagna", girato nel 1943-45. A coloro che sono stati nominati nelle stragi nazifasciste, alla fame, al freddo, alla paura che hanno patito, al coraggio che hanno dimostrato. In quel reality non c’erano comunità di ragazze e ragazzi vacui e narcisi, di vip o presunti tali o di nip con l’unico senso di identità collettiva dato dalla finzione televisiva. Erano comunità animate da uno slancio corale per la libertà, quella di tutti e di ciascuno.

La Resistenza ha segnato lo spartiacque fra un prima e un dopo, celebrando la dignità di un popolo che si riscatta. La nostra Costituzione non poteva essere scritta senza quella esperienza storica, con le sue luci e le ombre.

Celebrare la Liberazione il 25 aprile, così come la festa del lavoro il primo maggio, così come quella della Repubblica il 2 giugno, non è quindi un vuoto esercizio retorico.

E’ piuttosto la conferma del legame che ci stringe in un destino storico, nel quale è ancora possibile (per alcuni doveroso) riconoscersi.

Valerio De Nardo

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