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Legge sul fine vita - Lettere al direttore - Scrive Bruno Dei
"Mi sento umiliato..."
Viterbo - 28 marzo 2009 - ore 5,30

Riceviamo e pubblichiamo - Caro direttore,
mi permetto di intervenire nuovamente sulla questione dolorosa del testamento biologico, già da te tanto opportunamente sollevata, dal momento che il Senato lo ha definitivamente affossato.

E lo faccio rilevando e sottolineando la distanza abissale che separa i dettami della nostra Costituzione rispetto a quanto soggiace al dettato della umiliante legge che i nostri parlamentari si preparano ad ammannirci.

Per i nostri tristemente dimenticati padri fondatori l’italiano era persona, autonomo e maturo portatore di valori, per il quale il principio di autodeterminazione appariva sacro ed inviolabile, come in modo diretto e netto tutt’oggi recitano gli articoli 2, 13 e 32 della carta costituzionale.

In tal senso il rapporto privato, privatissimo, di ciascuno di noi con i temi sensibili della propria vita e della propria morte, del dolore e della malattia, veniva lasciato ovviamente, e senza alcuna necessità di legiferare ulteriormente, ad una sfera privata in cui ciascuno di noi è posto di fronte alla propria coscienza, con la propria maturità ed i valori che ne discendono.

Secondo quei dettami, se proprio si voleva legiferare su quei temi tanto delicati, una semplice legge avrebbe dovuto ribadire, in un solo articolo, che l’italiano è individuo sufficientemente maturo e consapevole da poter decidere quale sia il proprio inviolabile rapporto con i valori fondativi della propria esistenza.

I nostri tristemente troppo ascoltati parlamentari di oggi hanno di noi, di me e di lei, di tutti gli italiani, una immagine profondamente diversa.

In questi sessanta e passa anni che ci separano dall’avvento della Carta, l’italiano è ‘evoluto’, divenendo, grazie a questa classe dirigente, da cittadino consapevole e responsabile quale era, un bambino undicenne da sottoporre alla tutela, nell’ordine, del prete, del medico e del politico.

Noi non potremo più autodeterminarci nei nostri più intimi contenuti esistenziali: potremo, al massimo, ‘dichiarare’ (sottovoce e con timida titubanza) come vorremmo essere trattati nel caso che dovessimo finire, per eventi di malattia od altro, in una condizione di stato vegetativo permanente. Ma poi a decidere saranno altri: diverremo insomma un pacchetto informe da donare a coscienze altrui, estranee e, al limite, ostili.

Vorrei dirmi indignato, ma forse sono semplicemente costernato, al limite incredulo.

La Costituzione per fortuna ancora vigila sui balbettamenti inconsapevoli di una classe dirigente che troppo spesso varca le soglie dell’osceno, del ridicolo, inchinandosi a poteri forti estranei a quella che dovrebbe essere una sana dinamica politica.

Inoltre credo, voglio credere, che gli italiani siano più maturi di questa classe dirigente e che in ogni caso siano pronti a spazzar via con un referendum abrogativo norme simili a quelle che stiamo subendo.

Ma in quanto italiano, oggi, mi sento umiliato, offeso, ferito nel mio intimo.

Non più cittadino consapevole e maturo, appartenente ad un mondo di civiltà che ha alle proprie radici il secolo dei lumi e la sua fondazione nella ragione, ma suddito, nei rigurgiti di un paternalismo medioevale che pensavamo abbattuto, e che ormai l’occidente ha in gran parte cancellato dalle proprie prassi e dalle proprie coscienze.

Bruno Dei

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