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L'opinione del sociologo Francesco Mattioli
Tragedie di Sarah e Yara, ci vuole più controllo sociale
di Francesco Mattioli
Viterbo - 13 dicembre 2010 - ore 2,20

Il sociologo Francesco Mattioli
- I recenti episodi che hanno visto tragicamente coinvolte delle ragazzine minorenni, di certo hanno gettato nello sgomento molte famiglie.

Gli appelli mediatici a non drammatizzare più di tanto, a non generalizzare, a non farsi prendere dal panico, trasformando ogni genitore in un’ansiosa guardia del corpo, non hanno raggiunto del tutto il loro scopo.

C’è una diffusa sensazione di pericolo, di allerta e di allarme; eppure, il rapimento o l’uccisione di una minorenne non sono la manifestazione di un virus che, improvvisamente, si va diffondendo fra la popolazione.

Casi del genere ce ne sono stati in passato, ce ne sono a decine, anche se poi qualcuno si risolve positivamente e qualcun altro non raggiunge l’evidenza mediatica di certe storie.

“Viterbo è un città sicura?” cominciano a chiedersi diversi genitori, magari fra sé, anche se poi nessuno è disposto ad ammettere di essere preda di una qualche psicosi da rapimento.

Viterbo è una città sicura, dicono i dati di una recentissima indagine svolta dallo sportello sicurezza del Comune, con la collaborazione dell’Università La Sapienza; o meglio, Viterbo è una città “percepita” come sicura.

Tanto è vero che sono numerosi i neocittadini viterbesi che scelgono di dimorare in questa città proprio perché la considerano un rassicurante rifugio (magari alla faccia di chi continua a mettere Viterbo in coda nelle graduatorie di qualità della vita).

Dice: anche Avetrana e Brembate erano considerati centri “sicuri”.

Ma nel caso di Avetrana, siamo di fronte ad un episodio del tutto intrafamiliare, che magari si alimenta dell’alienazione e del familismo amorale del profondo sud, e che poco ha a che vedere con problemi di ordine pubblico. Mentre per il caso di Brembate il mistero è talmente fitto da agitare qualsiasi tipo di occulta minaccia.

Alle crisi intrafamiliari, la Tuscia non è estranea: basterebbe pensare al caso di Gradoli; mentre dal mistero e dall’imponderabile nessuno può sentirsi al sicuro. Ciò basta a creare allarme anche nella “tranquilla” Viterbo.

Ma se questi episodi si moltiplicano, se diventano tanto odiosi ed eclatanti, non dipende soltanto da una sovraesposizione mediatica. Il fatto è che il “controllo sociale” è venuto meno.

Può far storcere il naso il rinvio al “controllo” sociale, specie a chi ancora si abbevera di certi vecchi slogan sessantotteschi: figurarsi se gli ierofanti del “vietato vietare” possono apprezzare il controllo sociale…

Il fatto è che non si sta parlando del controllo poliziesco da parte delle istituzioni (che comunque oggi, da noi sono istituzioni democratiche, non fasciste); e non si tratta neppure di fantasticare di improbabili ronde (il far west è lontano).

Quello che manca è il controllo da parte della comunità, il controllo che sorge dalla solidarietà, dalla cooperazione, dal vivere insieme.

Viviamo guardando di fronte a noi, verso i nostri scopi personali, senza mai girare lo sguardo intorno, a vedere cosa succede al resto del mondo; svolgiamo il nostro lavoro senza amore e senza passione, pronti solo a controllare la busta paga a fine mese; non conosciamo i nostri condomini e i nostri vicini, e molti di loro li consideriamo degli importuni; consideriamo l’altro un intruso, un impiccione, magari anche un competitore pronto a rubarci spazio e risorse. E’ un‘analisi spietata che proviene da personaggi di caratura internazionale come Zygmund Bauman, Ralph Dahrendorf, Anthony Giddens.

Il controllo sociale, il neighbourhood watching (la sorveglianza di vicinato) degli anglosassoni, significa accorgersi di ciò che accade intorno a noi, essere pronti a renderne conto alla bisogna, esporsi nel contribuire a mantenere condizioni elementari di sicurezza e di civiltà. E’ il controllo sociale il primo avversario del vandalismo, dell’incuria, e di tutti quei delinquenti che approfittano della disattenzione altrui per perpetrare i loro peggiori delitti.

Molti etnologi hanno notato come nelle tribù più primitive l’ordine sociale e l’educazione civica fossero obiettivi perseguiti collettivamente: ogni membro della tribù contribuiva a garantire la sicurezza nel campo, e ogni adulto era genitore, educatore e controllore nei confronti delle nuove generazioni.

Ferdinand Toennies rilevava come queste condizioni fossero essenziali per garantire la qualità della vita delle comunità. Certo, piccole tribù, comunità contadine dei tempi andati… nella città moderna, nella società dei consumi, delle intolleranze, delle competizioni, dell’arrivismo e del declino delle responsabilità personali, tutto ciò sta diventano utopia, e magari persino oggetto di scherno.

Provate a riprendere un ragazzino che imbratta un muro: sempre che non vi mandi a quel paese senza tanti complimenti, ve la dovrete vedere con un genitore che, invece di ringraziarvi per averlo sostituito nella sua funzione educatrice, vi minaccerà per esservi impicciato degli affari altrui e per aver rimproverato il suo caro e irresponsabile figliolo… E’ saltato il patto educativo fra gli adulti, è saltata la solidarietà, è saltata la collaborazione, la condivisione dell’esperienza comunitaria; siamo in una giungla metropolitana di individui frustrati, aggressivi, diffidenti, distratti, arroganti e superficiali. Non è così? Trascorrete mezz’ora nel traffico dell’ora di punta, in autobus, in fila davanti ad un pubblico sportello, magari in un qualche negozio appena affollato e persino a scuola…

Mi fanno tristemente ridere i genitori, le autorità, i giornalisti che chiedono alla gente di parlare; “chi sa, parli..” implorano. Ma la gente non è più abituata a farlo; anzi, non sa più farlo, perché all’occasione guardava poco oltre la punta del proprio naso, o ha girato la testa, quasi automaticamente. Cento altre volte, a chi sapeva è stata chiusa la bocca, dicendo “di che ti impicci?”, “come ti permetti?”, “non sono affari che ti riguardano”.

E così qualcuno ha chiesto anche a sé stesso: “ma chi me lo fa fare?”.
E oggi, si raccoglie ciò che si è seminato.
Francesco Mattioli


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