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Lettere - Scrive Antonella Bruni
Porcospino o tartaruga?
Viterbo - 12 gennaio 2010 - ore 2,15

Riceviamo e pubblichiamo - Credo che i recenti fatti di Rosarno meritino alcune riflessioni, per tentare di evitare che ciò che è accaduto, inevitabilmente, accada di nuovo, in ossequio alle teorie di Giambattista Vico sui corsi e ricorsi storici, ammesso che ci siamo lasciati alle spalle l’età degli dei, quella degli eroi e, giunti a quella degli uomini “…finalmente riflettiamo con mente pura” (Scienza Nuova).

Un primo dato di fatto sembra evidente, ovvero che il paese reale, spesso, è molto diverso dal paese ufficiale e dalla percezione che di esso hanno alcuni politici, i quali tendono a distanziare il loro mondo di privilegi dalle angustie quotidiane dei cittadini, finendo per non capire più nulla delle reali necessità dei loro amministrati, ma pretendendo anche d’impartire loro lezioni etiche.

Partiamo dai fatti calabresi: improvvisamente, ma non troppo, decine d’immigrati, prevalentemente di colore, danno vita a una rivolta, aggredendo cittadini a caso e distruggendo i loro beni, sul pretesto che qualcuno era stato ferito da un colpo di arma ad aria compressa.

I danni sono gravissimi, la tensione sale e gli abitanti del luogo, fomentati o meno dalla malavita organizzata, che probabilmente persegue specifiche strategie, reagiscono scatenando una caccia all’uomo. Con ritardo, ma con efficacia, lo Stato interviene, allontana gli extracomunitari, elimina i ricoveri abusivi e ripristina una parvenza di legalità.

Fine della storia, si direbbe, ma non è un lieto fine e temo che nessuno vivrà felice e contento. Peraltro, anche lo psicologo Robert Steinberg, sostenitore di tale fiabesca teoria, ci dice che “…perché l’amore possa durare per sempre, si deve condividere la stessa storia”.

All’origine c’è stata una chiara sottovalutazione del fenomeno, con un permissivismo sbracato, che è l’acqua nella quale nuotano e si accrescono fenomeni di contrapposizione sociale. A livello di governo centrale, come solo da poco si sta faticosamente tentando di fare, cercando di rimediare ad anni di sole parole in libertà, è necessario stabilire flussi immigratori sostenibili, sul principio che nessuno può entrare a casa di altri senza un preventivo permesso, tenendo presente che uno stato senza il controllo del proprio territorio non esiste e rammentando che la nazione è la casa di tutti i cittadini.

Se uno straniero entra in Italia, senza un lavoro, senza un’abitazione, senza prospettive concrete a breve termine, questi probabilmente delinquerà e, con buona pace di sciocchi insensati di vario orientamento ideologico, nessuno stato è in grado di garantire corretta accoglienza a chiunque, naturalmente fermo restando che, per logica priorità, i cittadini devono avere la precedenza sugli stranieri per qualsiasi programma assistenziale.

A livello di amministrazioni locali, la colpevole incuria mi sembra solare; il lavoro nero, le occupazioni abusive d’immobili, la manovalanza criminale, sono dinamiche comportamentali che non possono sfuggire a chi esercita responsabilità gestionali dirette e non si può rispondere che la colpa è del governo, che si hanno le mani legate o che è un problema di associazionismo caritatevole.

Amministrare richiede la capacità di prendere decisioni, talvolta spiacevoli, ma sempre nell’interesse generale della collettività, anche a danno di contingenti esigenze elettorali, talvolta non commendevoli.

Leggo che piani alti dell’intelligence s’interrogano preoccupati sui fatti calabresi.

Sono sorpresa, poiché ho sempre ritenuto che l’attività informativa, propedeutica alla prevenzione del crimine, dovesse interpretare i segnali di disagio sociale, cogliendone le possibili strumentalizzazioni, molto prima che essi sfocino in attività penalmente rilevanti, trasformandosi in un problema di ordine pubblico. In realtà la questione ha connotati complessi, ma ben conosciuti.

La Calabria è una delle regioni italiane in cui il controllo del territorio non è completamente nelle mani dello Stato e, di fatto, questi è responsabile di una latitanza secolare; ciò ha frenato un omogeneo sviluppo sociale, che è premessa e condizione di un clima di legalità, attualmente non del tutto garantito. In disparte, non credo che chi esercita responsabilità istituzionali rilevanti possa riferirsi al matematico statunitense Edward Lorenz, famoso sostenitore del caos deterministico.

So di non attirarmi facile popolarità, so anche che questi argomenti sono spinosi, ma non si avvieranno a soluzione, né con lo scaricabarile, né mettendo la testa sotto la sabbia.

Lo Stato garantisca una cornice giuridica logica al problema, gli enti locali interpretino le reali necessità dei cittadini, magistratura e forze di polizia assicurino il rispetto della legge, ma si creino anche le condizioni di opportuno consenso popolare.

Come si può dire a un onesto lavoratore, che ha comprato a rate, faticosamente pagate, la propria automobile, demolita da emigranti inferociti, che il suo è un danno collaterale, statisticamente prevedibile?

Come si può predicare dal pulpito, spesso un ricco pulpito, invitandolo a porgere l’altra guancia, ovvero a farsi bruciare un’altra autovettura, posto che ne abbia potuto acquistare un’altra?

Come può il governo, gravemente inadempiente sotto il profilo del contratto sociale, dire a quel cittadino che si arrangi, perché ben altri sono i veri problemi, rispetto alla sua autovettura distrutta e, magari, perseguirlo penalmente se tenta di impedire il falò della sua Fiat o un immotivato pestaggio, contestandogli le lesioni provocate, l’eccesso colposo di legittima difesa, l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni?

Infine, qualche ideologo da strapazzo lo esporrà al pubblico ludibrio perché non è stato “politically correct” e, certamente, sarà candidato a pene eterne nell’aldilà.

Voglio ribadire che illuminati pensatori come Locke, Hobbes e Rosseau, non certo rivoluzionari fanatici, ci ammoniscono che “…nel momento in cui il patto sociale viene violato, il potere politico diventa illegittimo, venendo legittimata la ribellione”.

Le contraddizioni insite tra società e individuo, sono tratteggiate da Arthur Schopenhauer nel “dilemma del porcospino” (Parerga und Paralipomena), in cui il famoso filosofo ci illumina su questi piccoli animali che per scaldarsi devono stare vicini, ma se stanno troppo vicini, si feriscono.

Si deve quindi trovare la distanza giusta dall’altro, per scaldarsi senza ferirsi, ma Dio non voglia che qualcuno, per superare tale dilemma, adotti l’alternativa della tartaruga, ovvero si ritiri nel proprio guscio, si isoli dal mondo, lasciando che altri decidano; io preferisco sbagliare da sola, non so voi…

Antonella Bruni

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