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Viterbo - Roberto Saviano emoziona piazza del Comune stracolma, ricorda Taricone e stigmatizza Dell'Utri - Fotocronaca
"Va ridato onore alla parola..."
di Stefania Moretti
Viterbo - 1 luglio 2010 - ore 4,33

Il video dell'intero incontro di Saviano

Roberto Saviano a Viterbo
Una folla immensa - Foto Paolo Manganiello
Foto Paolo Manganiello
Con Filippo Rossi
Foto Paolo Manganiello
Arriva Veltroni
- Un tavolo. Un computer. Una bottiglia. Non c'è nient'altro sul palco. Poi arriva lui e, di colpo, lo riempie.

Roberto Saviano sa fare anche queste magie. Il suo arrivo a Viterbo, per l'apertura di Caffeina, viene annunciato tardi. Con meno di due giorni di preavviso. Ma i viterbesi ci sono. In 5mila lo attendono. Un cordone umano che cinge l'intera piazza del Comune, blindata come non era stata mai. Tra la fiumana di persone, si aggirano schiere di poliziotti e carabinieri in borghese, pronti a scattare. Ma, per fortuna, non ce n'è bisogno. Poi ancora un magia e appare Walter Veltroni.

Le prime parole di Roberto sono per la città che lo ospita. “Viterbo è bellissima – dice –. Mi avevano detto che lo era... ma non immaginavo così...”. Poi un pensiero al suo conterraneo Pietro Taricone, che Saviano conobbe tra i banchi di scuola. “C'è un tempo per vivere e un tempo per morire. E per Pietro il momento di morire non era ancora arrivato... nel suo essere guascone e spontaneo ha rappresentato, per tutti noi, la possibilità di farcela, pur provenendo da una terra difficile come la nostra”.

Ma Saviano non vuole parlare di Napoli, di Casale, di Caserta. Il suo racconto inizia dalla Palermo del '92, del sangue, delle stragi. Le sue mani si muovono frenetiche nel ripercorrere quell'anno terribile, che distrusse col tritolo gli sforzi della Sicilia antimafia. I maxischermi accanto al palco proiettano l'intervista di Gianni Minà ad Antonino Caponnetto, il magistrato che creò il pool antimafia e che lavorò per anni a fianco di Falcone e Borsellino e che li vide morire uno dopo l'altro.

“Oggi – afferma Saviano - si tende a dimenticare quegli anni, a fare spallucce, ad accettare dichiarazioni come quella di Dell'Utri, che definisce Mangano un eroe. Una frase del genere è intollerabile. Mette paura, perché ci impedisce di raccontare quella storia. La storia di Falcone e Borsellino. Non è una questione politica. La legalità non è di destra, né di sinistra, né di centro. E' la premessa, e non il risultato di un discorso politico”.

Saviano non risparmia nessuno. Neppure il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che, una volta, in conferenza stampa, arrivò a dire che “chi scrive di mafia, la diffonde”. Un ragionamento che lo scrittore napoletano definisce “delirante. E' come dire che Camus è un untore perché ha scritto La Peste”. Ma accuse come queste sono il suo pane quotidiano e Saviano ha imparato a conviverci. “Quando dicono, con il solito tono di sufficienza, che sono un professionista dell'antimafia, rispondo sempre allo stesso modo: preferisco essere un professionista che un dilettante”.

A chi gli rimprovera di parlare sempre di mafia, Saviano ricorda che il silenzio è il peggiore dei mali. Il terreno fertile sul quale la criminalità prospera.

“L'omertà di oggi è il non voler capire. Ci sono storie che non possono essere dimenticate. Come quella di Falcone e Borsellino, di Fava e Siani. E storie che non possono essere accettate. Il solo pensiero che Nicola Cosentino, sottosegretario all'Economia e alle Finanze, sia stato accusato di avere rapporti con i Casalesi, mette ansia... o almeno dovrebbe”.

Per Saviano c'è un solo modo di rispondere ai tanti Dell'Utri e Cosentino. Alla strategia del silenzio e delle frasi intollerabili. “Dobbiamo impedire che la comunicazione si inceppi. E, soprattutto, recuperare l'onore, quella meravigliosa parola che la mafia ci ha rubato. L'uomo d'onore è solo colui che cerca di vivere da uomo”.


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