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Il sottoscala di Sassi - Dopo la sentenza del giallo di Gradoli
Io un po' di paura ce l'ho...
di Arnaldo Sassi
Viterbo - 16 maggio 2011 - ore 2,00


Arnaldo Sassi
- Io un po’ di paura ce l’ho. Perché quello che è accaduto a Paolo Esposito e ad Ala Ceoban potrebbe accadere a ognuno di noi. Intendiamoci, io non sono affatto sicuro che l’elettricista di Gradoli e la sua cognata-amante siano innocenti.

Anzi, molti indizi portano a pensare che potrebbero proprio essere stati loro a far fuori Tatiana Ceoban e sua figlia Elena.

Ma quella della colpevolezza resta un’ipotesi e durante il processo non si è trasformata in certezza o in quasi certezza.

Lo dico alla luce di quanto è emerso in una teoria infinita di udienze durante un anno tondo tondo. E allora mi chiedo e chiedo a voi: si può condannare all’ergastolo nell’incertezza che il reato sia stato effettivamente commesso?

Ecco, il punto sta proprio qui. In dubio pro reo, sentenziavano i latini. Per il giallo di Gradoli non è stato affatto così.

La corte d’assise viterbese ha sposato le tesi dell’accusa in tutto e per tutto, ignorando la ricostruzione lacunosa che il pm ha fatto nella sua requisitoria su quanto avvenuto quel pomeriggio del 30 maggio 2009.

Renzo Petroselli in questo è stato onesto: "Io non so – ha detto in udienza – a che ora le due donne siano state uccise, come siano state uccise, come siano stati trasportati i corpi, dove siano stati nascosti, ma sono sicuro che gli assassini sono loro perché avevano il motivo per farlo. Hanno mentito e questa è la prova che dovevano nascondere ciò che avevano fatto".

E’ sufficiente tutto ciò per condannarli all’ergastolo? Soprattutto quando sul piatto della bilancia ci sono un’altra marea di particolari (che sarebbe troppo lungo ripetere in questa sede) che potrebbero far pensare che le cose siano andate in tutt’altro modo.

Escluso l’allontanamento volontario delle due donne (altrimenti, dopo due anni, forse qualche loro traccia si sarebbe trovata) rimane la terza ipotesi, legata soprattutto a quella telefonata delle 17,36 fatta da Tatiana alla figlia Elena e agganciata dalla cella di Capodimonte. Che non può non far chiedere a tutti: ma siamo proprio sicuri che quando la donna moldava telefonò alla figlia si trovava sul pullman del Cotral per Gradoli, che in quel momento transitava nei pressi di Bolsena? No, non siamo sicuri.

Anzi, i tecnici Vodafone hanno detto al processo che quella cella quel giorno agganciò il 27 per cento delle telefonate provenienti da Bolsena. Ne rimane un cospicuo 73 per l’ipotesi contraria. E se Tatiana non stava sul pullman per Gradoli, ma nei pressi di Capodimonte, non poteva essere sola, ma con qualcun altro, visto che non aveva né macchina, né patente. E’ un ragionamento assurdo, questo?

Io un po’ di paura ce l’ho. E per questo vorrei capire. Capire quali sono le certezze che hanno portato a questo verdetto. Capire perché i giurati non hanno minimamente avuto i dubbi che il dibattimento ha oggettivamente messo in luce.

Capire se l’onere della prova spetti ancora all’accusa (io ti imputo questo reato e produco gli elementi per dimostrarlo), oppure se di fronte a un’accusa sia l’imputato a dover dimostrare la propria innocenza.

Dico tutto ciò, ancora una volta, alla luce di quel concetto di garantismo spesso sbandierato a proposito e talvolta anche a sproposito. Che dovrebbe valere per tutti, e non solo per alcuni. E lo dico, con l’animo sereno di chi vuol porre un problema serio senza denigrare nessuno, anche alla luce del fatto che forse l’eccessiva esposizione mediatica dell’evento (che però ci stava tutta) possa aver in qualche modo influito sul verdetto finale.

Mi chiedo cosa sarebbe potuto accadere in caso di assoluzione: i media avrebbero fatto a pezzi la procura viterbese. E allora non posso non pensare a quella proposta di legge sulla separazione delle carriere dei magistrati, di cui si parla da tantissimo tempo, ma che non si riesce proprio ad attuare...

Arnaldo Sassi


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