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Il cantante lirico
Alfonso Antoniozzi
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- In una società come la nostra che, seppure a fatica, si sta lentamente adeguando alla moda del "politicamente corretto", sono a ragione scomparsi diversi vocaboli che fino a qualche tempo fa definivano in maniera categorica quanto razzista e maleducata alcune categorie di esseri umani.
Disgraziatamente, insieme alle parole che contenevano un neanche tanto larvato insulto, è scomparsa anche la parola "vecchio".
A differenza di certe parole orribili e di certe altre mostruosità lessicali, a chi sia nato nella mia generazione e cresciuto con un'alimentazione forzata di testi classici il termine "vecchio" non richiama nessun tipo di assonanze negative.
Al contrario, quando penso a un vecchio mi viene in mente qualcuno che ha vissuto più di me, che più di me ha visto e fatto cose le più disparate, una fonte di esperienza cui attingere, una persona che merita rispetto se non altro per il fatto che abbia molti più anni dei miei.
Con la scomparsa del termine "vecchio" dal nostro lessico, inesorabilmente anche i vecchi paiono scomparsi non solo dalla nostra vita ma anche dal nostro immaginario, al punto che in soli cinquant'anni siamo riusciti a fare uscire i nonni dalle nostre case e li abbiamo prontamente relegati negli ospizi, oh pardon, nelle case di riposo.
E provatevi a dire che una persona che muore a ottant'anni sia vecchia: immediatamente si leva un coro di proteste. Ma no, ma come vecchio, quanti anni aveva? Ottanta? Uh, giovane!
Nella nostra società pare ormai che per esser considerati vecchi bisogni suonare almeno i novantacinque, cento anni. E arrivarci, possibilmente, in pieno rincoglionimento senile.
Con i mass media che si fanno sotto giorno dopo giorno a ricordarti che le rughe vanno combattute, che i capelli bianchi vanno tinti, che con un bell'intervento di chirurgia plastica puoi cancellare il peso degli anni, le nostre nonne e i nostri nonni del duemila vanno in palestra a seguire i corsi di salsa, guidano rombanti fuoristrada, scongelano la zuppa precotta della nota marca di surgelati e mostrano qualche segno di cedimento solo se l'adesivo per dentiere manca di fare l'effetto sperato o se hai la ventura di beccarli in coda al supermercato con i pannoloni che sbucano dal carrello della spesa.
Con la scomparsa dei vecchi dalla nostra vita, scompare anche un punto di riferimento fondamentale della nostra esistenza.
Scompare la figura del nonno che, seduto al tavolino mentre faceva girare la catena dell'orologio da tasca, dispensava massime di saggezza o temperava i rimproveri del babbo o della mamma.
Scompare la nonna che malgrado i suoi acciacchi ti stirava la camicia che come lei nessuna, che metteva su un sughetto che ancora te lo ricordi, e che ti mollava anche un austero ceffone quando serviva. Un ceffone, sia detto chiaro e tondo, che bruciava più di quello dei tuoi genitori perchè non ti saresti mai aspettato che quella figura bianca che profumava di buono e che tante volte aveva preso le tue difese potesse perdere anche lei, una tantum, la pazienza.
Scompare la memoria storica, scompaiono i ricordi, scompaiono i racconti, si perde il rispetto per chi ha più anni di noi in una sorta di disumana, perenne primavera che ci vuole tutti efficienti, giovani, al massimo del nostro fulgore fisico e mentale e, soprattutto, tutti senza età e livellati alla stessa soglia: giovani, dai 18 ai 90.
E, cosa ancora più disumana, ci abituiamo a considerare la vecchiaia come una cosa ripugnante, da allontanare, mascherare, nascondere ed esorcizzare il più efficacemente possibile, come se fosse un'orribile vergogna.
Non solo siamo riusciti a perdere la dignità della vecchiaia, ma ce ne rallegriamo anche.
Io che, da parte mia, rivendico fin da ora il diritto a essere considerato vecchio quando avrò i miei bei settant'anni, vorrei anche che ora -ossia a quarantacinque- si pensasse a me come a un signore di mezza età, e che le sconosciute commesse diciottenni di altrettanto sconosciuti negozi in cui mi capita di far spese mi salutassero dicendo "desidera?" invece di "ciao, che ti serve?".
In fondo, non abbiamo mai mangiato alla stessa tavola. E non sono nemmeno tuo nonno.
Alfonso Antoniozzi
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